Ho trovato un ragazzo decente e non era
tra i rifiuti. In mezzo a file di persone disperse nell’intento di
ballare sul proprio centimetro quadrato da bravi fessi inetti, mi
stavo facendo largo tenendo i gomiti stretti al corpo, per non venire
infastidita dai soliti mammalucchi spenti che cercano di aggrapparsi,
stringerti o strappare i tessuti della tua maglietta.
Avevo superato la massa centrale di
ebeti quando la musica diventò orecchiabile e certi spazi, rari in
quel genere di eventi, cominciavano a formarsi in tempo per darti
modo di respirare senza stare attenti a quel genere di amebe di cui
il locale era pieno zeppo.
Ironicamente, ho anche quella volta ho
detto “ce l ho fatta.” Ero fuori, ed il vento si era alimentato
senza perder tempo, crescendo in raffiche alquanto forti, che se ne
avessi prese cento sarei morta assiderata. Sperando in una qualche
fortuna mandata dal cielo, tentavo di scorgere l’altra svampita che
mi aveva accompagnata. Mi voltavo ma non si trovava.
Sono così andata in una stanza vicina,
quello del banco delle amebe sbronze con le tessere bucate da ragazze
sveglie o impasticcate in cerca del tipico idiota da spennare. Mi si
para davanti con passo pesante, non so per cosa, ma parava la luce e
guardava noi puffi dalle sue alte orbite posizionate là dove l’aria
era sicuramente più respirabile. Mi fece paura.
Senza dire una parola, lasciai libero
il passo, scusandomi. Mi ha odiata per questo, ma del resto è andata
meglio di quanto previsto. Non l’ho rivisto fino a qualche ora
dopo, quando accompagnavo la falsità in persona con la macchina che
mi aveva trasportato fuori a fumare sul selciato.
La ragazza mi ammorbava con la stanca
sequenza di brutte avventure, raccontate ingigantendo ogni cavolata
così che ogni azione maschile sembrava l’urgenza di un qualche
ictus inflitto dalla mano di un pazzo dottore impegnato a prescrivere
pillole pronte a far insorgere una schizogenesi grave anche in chi
non era latente. Con accondiscendenza ho dovuto rivere la sua assenza
di eloquenza. “ce l’hai fatta!” le dicevo anche te mentre
pensavo, “ce l’hai fatta anche te, vittima della demenza.”
Mi spintona leggermente col gomito
piegato, ma ossuto al punto da aver pigiato in un punto dolente del
costato. Rimango in una posa che d’istinto non avrei mai osato
sfoggiare in pubblico, ma ormai il danno è fatto. Lui si scusa.
Parliamo. A dir la verità, mi ha risvegliato dalla sonnolenza delle
stupidaggini insensate, ormai accatastate in qualche angolo remoto
della mia coscienza, e di cui ne avevo avuto a sufficienza per almeno
trent’anni o finché anche quella pustola con le gambe sarebbe
morta e lanciata in qualche fosso.
Lui era stupido, ma si era abbassato al
livello comune. Mi è stato simpatico quando ho notato che entrambi
intendevamo la lingua italiana come una lingua che non si è fermata
alle solite venti parole che gli altri aborti anfibi presenti quella
serata riuscivano in qualche modo a mugghiare. Quando me ne accorsi,
mi sentii ad un tratto in un territorio nuovo, nemico anche se non
ostile, ma ce l ho fatta e mi sono districata giocando sul solito
ritmo del dire le cose sensate una alla volta. Curioso come quando si
finisce in certi momenti, il primo istinto è comportarsi proprio da
bestie come saranno condannate a fare sempre i diversi componenti di
quella festa, lasciando fuori noi esseri normali che sicuramente
siamo meno del venti per cento del totale.
Ce l ho fatta
Quindi è vero, sono brutta e ce l ho
fatta. Alla faccia di quelle orrende maschere di carta bagnata che
riescono ad accalappiare un maschio solo perché la linea che han
guardato è comparsa. Godetevi la vostra miseria, anche se non posso
che dispensare alla seria condizione di vittime in procinto di
inquinare ancora di più il mondo. Ma del resto, finché non facciamo
uno sgorgo decente, la melma continuerà ad arrivarci alle caviglie.
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